CARCERE e sessualità

Può la rieducazione del detenuto avvenire senza tenere in considerazione la sfera della sessualità?

Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione. (Voltaire)

Spesso situati alle periferie delle città, in quartieri popolari, proletari e distanti dalle vite e dagli occhi del resto della popolazione, confinati in edifici freddi, spogli e austeri, in Italia contiamo ad oggi 191 istituti di pena nei quali sono “ospitati”, in una condizione di inaccettabile sovraffollamento, ben 60.512 reclusi, un numero pari a quello degli abitanti di città italiane come Carrara, Matera o Crotone. 

A tutte queste persone, detenute non soltanto per espiare la pena derivante da una condanna definitiva, ma spesso e volentieri recluse in via cautelativa in attesa del giudizio, viene negata oltre alla libertà personale anche la possibilità di coltivare relazioni affettive di tipo intimo.

Sebbene, come cita il testo dell’articolo 27 della nostra Costituzione, la funzione della pena detentiva debba essere umana e rieducativa, assistiamo di fatto in Italia ad una situazione legislativa che impone una forzata privazione sessuale a tutti i detenuti e le detenute del nostro Paese, privazione che contrasta in modo evidente tale finalità legislativa.

La promozione dei rapporti con la famiglia, che viene menzionata dalle fonti del Diritto Penitenziario come uno degli elementi cardine su cui si impernia il trattamento penitenziario, è infatti perseguita unicamente attraverso i colloqui (in numero massimo pari a sei al mese e della durata massima di un’ora) e attraverso i permessi premio (che hanno durata massima pari a quindici giorni e che sono concedibili soltanto a determinate condizioni che riguardano il residuo di pena, la tipologia di reato commesso e il comportamento disciplinare tenuto all’interno dell’istituto).

Se durante il permesso premio, che si svolge interamente al di fuori delle mura, il detenuto ha effettivamente, sebbene in modo saltuario, frammentato e non continuativo, la possibilità di coltivare la propria sessualità, lo stesso non accade durante il colloquio che, per moltissimi dei reclusi non aventi diritto al permesso premio, resta l’unica occasione utile per incontrare il proprio partner o il proprio coniuge.

Il colloquio infatti si svolge sempre all’interno dell’istituto, in appositi locali arredati unicamente con tavoli e sedie, dove sono ospitati contemporaneamente più detenuti con i rispettivi visitatori, e avviene sempre sotto il controllo visivo (in alcuni casi, per determinate tipologie di reato, anche audiovisivo) del personale di Polizia Penitenziaria. 

Appare evidente come in tale contesto l’emotività, la relazione e l’intimità rappresentino una mera utopia. 

L’assenza di “spazi d’amore” all’interno delle carceri reca gravi danni all’integrità psicofisica di una vasta platea di persone alle quali la legge impone un trattamento coatto volto alla loro rieducazione e al loro reinserimento sociale. Ma come si può pensare che tale obiettivo possa essere raggiunto in assenza della possibilità di sperimentare quell’amore, tanto spirituale quanto fisico, che spesso a molti dei detenuti è stato negato anche durante il periodo precedente alla carcerazione? Come può essere rieducativa una pena che, negando il diritto all’intimità e alla sessualità, impatta ancor più negativamente sulla personalità dei detenuti, compromettendo e disintegrando i rapporti che essi avevano o avrebbero potuto avere con il mondo esterno?

Le conseguenze di tale privazione, come mostrano non soltanto i fatti di cronaca ma anche e soprattutto le statistiche di Antigone, Ristretti, Filo Diritto ed altre fonti di informazione, si manifestano nella proliferazione all’interno delle carceri di fenomeni quali l’omosessualità eteroimposta, l’autolesionismo, gli stupri, le violenze fisiche e i suicidi.

Riguardo il tema della sessualità in carcere, dunque, non c’è proprio “niente da ridere”, come titolava l’articolo “No laughing matter” dell’Economist, pubblicato nel 2013 con l’obiettivo di dare rilevanza pubblica ad un argomento spesso abbandonato nel dimenticatoio. I detenuti e le detenute, come del resto tutti gli uomini e le donne in stato di libertà, non sono infatti soltanto anime da risocializzare, ma anche corpi da rieducare all’incontro, allo scambio e all’amore, persone da “trattare” tenendo conto della globalità psiche-soma che li contraddistingue come individui. 

Trascurare l’uno o l’altro aspetto non può che tradursi in un trattamento “monco”, incompleto, incapace di restituire alla società individui che abbiano potuto concretamente trasformarsi, facendo esperienza del “bello” per superare le carenze, le difficoltà e le deprivazioni che li hanno accompagnati sulla via della devianza.

Del resto l’incompatibilità tra il regime detentivo e la sessualità, che in Italia appare ad oggi insormontabile nella concezione del legislatore, è smentita nella pratica da tante altre realtà europee ed internazionali.

È, ad esempio, il caso del Canada, paese in cui la possibilità di svolgere visite intime all’interno del carcere iniziò a essere riconosciuta sin dal 1960 da parte di alcune strutture provinciali, per essere poi negli anni ottanta e novanta estesa in tutto il territorio nazionale. Si tratta di una possibilità cui possono accedere i reclusi che si trovano in carcere da più di due anni e che non presentano pericolosità sociale e consiste in incontri a cadenza bimestrale che durano dalle 24 alle 72 ore, svolti all’interno di una zona speciale del carcere, in piccoli appartamenti arredati con una o due stanze da letto, cucina, soggiorno, bagno e uno spazio esterno con un cortile o un giardino.

Rimanendo nel continente nord americano, sono ben cinque gli Stati USA che prevedono la stessa opportunità: California, New York, Washington, New Mexico e Connecticut. In questi stati i detenuti e le detenute possono incontrare il proprio partner in appartamentini protetti posti all’interno dell’istituto, arredati in modo da riprodurre l’ambiente domestico. 

Restando sempre oltre oceano, citiamo anche l’esempio del sistema brasiliano che già dal 1999 prevede visite di tipo intimo sia per i detenuti uomini che per le detenute donne, avendo esteso pochi anni più tardi (2011) tale beneficio anche alle coppie omosessuali. A differenza del caso canadese e dei casi statunitensi, gli istituti di esecuzione penale brasiliani non prevedono l’esistenza di appositi locali ad hoc e le visite si svolgono all’interno delle celle stesse.

Ritornando nel nostro continente, osserviamo il sistema spagnolo che prevede per tutti i detenuti e le detenute visite riservate da svolgersi all’interno di appositi locali dell’istituto due volte al mese per una durata massima pari a due ore. La realtà spagnola è particolarmente interessante perché, a differenza di altri ordinamenti, non concepisce le visite riservate come una misura premiale, bensì come un diritto che non comporta dunque nessun particolare requisito per essere concesso.

In Europa la Spagna non è sola: ad essa si unisce la Francia, che già dal 2009 ha esteso la possibilità di effettuare incontri intimi a tutte le prigioni nazionali. Il sistema carcerario francese predispone due diversi tipi di strutture: unità per le visite familiari, ossia appartamenti arredati situati all’interno del carcere ma al di fuori dell’area detentiva e stanze per le visite intime, ossia piccole camere di circa dieci metri quadrati, dotate di doccia, divano, letto, sedie, televisore e alcuni semplici elettrodomestici.

Studi condotti nei penitenziari dei Paesi che aderiscono a tale scelta, hanno mostrato come la possibilità per i reclusi di coltivare la propria sfera intima e sessuale non soltanto riduca le tensioni, gli episodi violenti, la masturbazione compulsiva e l’omosessualità eteroindotta, ma anche il numero e la gravità delle sanzioni disciplinari riportate. Tale possibilità correla inoltre inversamente con il rischio di recidiva ed è dunque stato evidenziato come i detenuti che sperimentano la sessualità durante il periodo di reclusione sono meno inclini, rispetto agli altri, a riprodurre comportamenti devianti una volta conclusasi la detenzione.

È quindi lecito domandarsi come mai questo elemento del trattamento penitenziario che produce effetti positivi tanto dentro quanto fuori le mura non venga applicato anche nel nostro regolamento. 

Ci auguriamo che presto anche l’Italia possa uniformarsi a quella che ormai in molti Paesi rappresenta una prassi non soltanto volta a preservare l’umanità e la dignità delle persone private della libertà, ma anche un efficace strumento nel percorso di rieducazione e risocializzazione.